Il rebranding di Juventus sta facendo scaldare molti animi. E lo capisco, perché soprattutto per gli italiani il calcio è qualcosa di anima e cuore, piuttosto che un semplice sport.

Però io vorrei riportare l’attenzione sull’aspetto tecnico di questa operazione di marketing che generalmente viene fatta nel momento in cui il brand inizia a essere inadeguato rispetto al mercato o c’è un cambio di direzione volto a migliorarne la percezione.Innanzitutto molti stanno parlando a sproposito – agenzie comprese (sic!) – perché non hanno ben chiara nemmeno la teoria.

Rebranding e restyling sono due concetti differenti, anche per Juventus

  • Il restyling è un cambiamento che viene fatto solo a livello di immagine visuale dell’azienda
  • Il rebranding o riposizionamento di marca è un cambiamento identitario dell’azienda, che mira a cambiarne la percezione nella mente del consumatore

E proprio nel caso di Juventus possiamo parlare di un vero e proprio rebranding, a questo proposito voglio citare le parole di Manfredi Ricca, Chief Strategy Officer di Interbrand, la famosa agenzia internazionale che ha curato tutto il processo:

Questo piano è volto a concretizzare la filosofia di Juventus – la ricerca dell’eccellenza senza compromessi – in iniziative, progetti ed esperienze radicalmente innovative, di cui il calcio sarà sempre l’origine, ma mai il confine. Questo permetterà al Club di sostenere la propria crescita sportiva ed economica, ed estendere la propria influenza sui mercati internazionali

Mentre tutti pontificano sul gusto personale che c’è dietro un cambiamento di immagine, qui non si è trattato del restyling di un logo storico, ma di un salto in avanti che la Juventus vuole fare per portare la sua identità al di fuori dei confini italiani.

Populismo o sopravvivenza? Scegli tu.

È appena successo con Adidas, che non si è piegata alla macchina del video che ha commosso il mondo/l’universo, per rispettare i suoi valori di marca e la sua strategia, dando esempio di grande professionalità e coerenza, anche nel rispetto dei suoi stessi acquirenti. Se non conosci il fatto, te lo riassumo così: Adidas ha rifiutato di utilizzare per le sue campagne uno spot strappalacrime ricevuto in dono da una persona apparentemente disinteressata. Il gioco della multinazionale cattiva che chiude le porte in faccia al piccolo ragazzo dai grandi sogni ha innescato il prevedibile moto di indignazione del web. Ti suggerisco caldamente di leggere l’opinione di Wired a riguardo, perché tra le altre cose questo piccolo ragazzo forse così sprovveduto non era.

Le strategie sono pensate da persone che fanno questo per lavoro. Prostituirsi per assecondare il populismo – anche da un’azienda titanica come Adidas – sarebbe stato controproducente, in quanto per calmare gli animi nel breve periodo si sarebbe messo a repentaglio il lavoro di una vita e il prestigio della marca nel lungo periodo.

Con il rebranding di Juventus vediamo lo stesso pattern comportamentale

La buona vecchia squadra del cuore, anima di migliaia di tifosi, si piega allo spietato gioco del marketing e cambia le carte in tavola senza nemmeno prendere in considerazione l’opinione di tutti coloro che da decenni la seguono e che quindi si sentono in diritto di deciderne le sorti.

Ogni tanto un po’ di buona freddezza anglosassone farebbe bene a noi latini che mettiamo i sentimenti anche di fronte alla logica. Gli equilibri di mercato sono condizionati dall’emotività, ma rimangono sempre e comunque fatti di logica, anche gli italiani se ne devono fare una ragione.

Se Juventus ha optato per un rebranding, forse (sicuramente dico io) ci sono ragioni importanti che riguardano la sopravvivenza del brand nel lungo periodo. Lo studio della situazione attuale, la proiezione nel futuro e il modo in cui agire NON SONO COMPETENZA DEI FAN.

I fan decidono a sentimento. Oggi odiano l’idea, ma tra 3 anni ci saranno braccia tatuate con il nuovo logo. I marketing strategist decidono sulla base di una competenza in materia.

Qualcuno ha addirittura suggerito la bontà della decisione fan-based, portando l’esempio di una squadra stranierea (neozelandese?) che ha fatto scegliere ai fan il nuovo logo. Ma che ne sapete dei motivi per cui quella squadra ha fatto questa scelta? E se coinvolgere i fan fosse la diretta conseguenza di una scelta nata perché è stato notato un abbandono progressivo da parte dei fan stessi, casistica ben lontana da quella Juventus?

Parliamo con cognizione di causa, per cortesia, c’è un mondo di imprenditori che ci legge e ha bisogno di noi!

3 cose che anche gli italiani devono imparare del marketing

  1. Il marketing non è una cosa brutta e malvagia: marketing significa permettere alle aziende di esistere! Se un’azienda non fa marketing, è un’azienda morta.
  2. Il marketing non è un gioco populista: marketing significa professionisti con il delicato compito di fare scelte strategicamente idonee a garantire all’azienda di esistere! L’opinione del popolo va tenuta in considerazione, ma non deve e non può essere determinante in una scelta di branding.
  3. Il marketing non lo decidono i consumatori: marketing significa anticipare le esigenze che i consumatori ancora nemmeno hanno! Non puoi chiedere al consumatore un’opinione su qualcosa che lui per primo non conosce.

Nemmeno io che sono nel marketing da tanti anni e di professione mi occupo proprio di rebranding posso permettermi la superficialità di giudicare un riposizionamento di marca senza prima avere analizzato le dinamiche precedenti e postume che hanno portato alla decisione finale, figuriamoci 60 milioni di italiani dei quali quei pochi che nel marketing ci lavorano non conosco la differenza tra restyling e rebranding

Possiamo esprimere il nostro gusto, ma le decisioni spettano ai professionisti

Possiamo esprimere un’opinione basata sul gusto personale: mi piace, non mi piace. Possiamo anche fare la nostra controproposta: lo avrei fatto così.

Ma quando vedo persone che dicono di lavorare nel marketing fare affermazioni come “avrebbero dovuto chiedere ai fan” o peggio ancora “avrebbero dovuto fare scegliere ai fan”, beh io mi chiedo in quali libri abbiano studiato e su quali esperienze basano la loro professione.

Perché se al posto di marketing scrivessimo “chirurgia” e al posto di fan scrivessimo “parenti”, sono curiosa di sapere se qualcuno avrebbe il coraggio di dire che nel campo della chirurgia possono decidere i parenti